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(Non così) breve excursus storico sulla brand personality.

E la vostra azienda che persona è?

Lavorate per un marchio dinamico e passionale? O magari per un’azienda materna, dolce e rassicurante?

L’idea che un brand possa avere una precisa personalità, paragonabile a quella umana è il presupposto fondamentale del mio lavoro e si colloca, nella sua espressione più completa, a cavallo tra gli anni 80 e 90.

Terrei proprio il 1990 come anno spartiacque, quando Dobni e Zinkham sostengono esplicitamente che la personalità, oltre che come elemento fondante dell’identità, possa essere considerata anche la metafora per la comprensione della percezione della brand image da parte dei consumatori. [1]

Negli stessi anni infatti anche la letteratura antropologica offre il suo contributo definitivo alla questione, tramite gli studi di Brown , dimostrando come, per ottimizzare la comprensione degli “oggetti” immateriali e la loro interazione con gli stessi, gli esseri umani tendano ad “antropomorfizzarli”, attribuendo loro cioè caratteristiche e valenze tipicamente umane. [2]

Nella seconda metà degli anni ’90, anche Keller, Olson, Doug Allen e Jerry Allen convengono su una definizione di “Brand Personality”, in forte accordo con le esigenze umane e psicologiche messe in luce sinora:

“la brand personality è l’insieme dei significati costruiti dall’osservatore per descrivere le caratteristiche interiori di un brand” [4]

Ma come siamo arrivati a questo punto?

In questo articolo voglio provare a sintetizzare clamorosamente alcuni degli apporti multidisciplinari che hanno spinto in questa direzione, cominciando dal contributo di Gardner e Levy. Già negli anni 50 gli autori si accorgono di un cambio di paradigma netto tra un passato materialistico-razionalista ed un nuovo decennio molto più attento alla questione simbolico-espressiva.

Nel 1955 Gardner e Levy affermano infatti che ciò che conti veramente nella comunicazione aziendale sia la dimensione simbolica del prodotto (brand image), epifania di un tratto distintivo o di una caratteristica della personalità di brand, aspetto molto più rilevante, ai fini dello status globale di un brand e delle sue vendite, rispetto a molti dettagli tecnici di prodotto. [5]

Siamo negli anni 50 dunque e il brand è considerato il risultato del dialogo tra le caratteristiche simboliche di un’azienda e l’esistenza del prodotto, inteso come oggetto pubblico complesso: costituito cioè dai significati creati dalla pubblicità, dal merchandising, dalle promozione e anche dalle caratteristiche umane attribuibili ad un marchio. È evidente come in quest’ottica, già dagli anni 50 il marketing potesse agire anche e soprattutto a livello simbolico, creando immagini e “personalità di marca” precise e forti [6] .

L’American Marketing Association (AMA), negli anni 60, in un clima culturale e produttivo dove la psicoanalisi e le scienze psicologiche incentrate sulla persona guadagnano sempre più terreno, definisce il brand

“il nome, il termine, il simbolo, il disegno o una combinazione di questi elementi, che distingua un produttore da ogni altro”

andando di fatto ad alimentare il dibattito incentrato sull’esigenza, da parte del marchio, di comunicare la propria identità attraverso una caratteristica differenziante, a cominciare dal proprio impatto visivo e da come esso possa influenzare la psicologia del consumatore.

Sidney Levy riassume così la questione nel 1964

Le nostre nonne valutavano i mobili in base alla loro utilità pratica: oggi è chiaro che non sono le considerazioni pratiche a spingere i consumatori a scegliere tra Post’s e Kellog’s, Camel e Lucky Strike, Oldsmobile e Buick, Arpège o Chanel n. 5. Sono i colori delle confezione, gli spot televisivi, gli annunci sui quotidiani e sulle riviste a spingerli in una determinata direzione” [7]

E proprio dagli anni 60 in poi infatti che il concetto di personalità di brand cresce fino a coinvolgere caratteristiche e tratti sempre più squisitamente umani. Nel 1985 Plummer, sulla scia dei lavori precedentemente citati afferma che ogni brand può essere descritto in termini di caratteristiche fisichecaratteristiche funzionali e personalità di marca e pone l’accento su come il consumatore acquisisca la personalità stessa del brand come espressione della propria, non solo sul piano sociale, ma anche su quello più intimo e personale. [8]

Il discorso, qui ridotto all’osso, sarebbe a questo punto ancora più ampio ma forse è meglio tenere il resto per domani, specie gli apporti di Alt e Griggs e di Aakar, padre e figlia.

Piccolo spoiler? Test psicologici praticati ai brand J

Ciao ♡

Note:

[1] Dobni, Zinkhan, 1990, In search of brand image: a foundation analysis, Advances, in Consumer Research, 17

[2] Brown, 1991, Human universals, McGraw Hill

[3] Olson, Jerry and Doug Allen, 1995,Building bonds between the brand and the customer by creating and managing brand personality, in marketing science institute conference on “brand equity and the marketing mix: creating customer value”

[4] Keller, 1998, Strategic Brand Management. Building, Measuring, and Managing Brand Equity, Pearson

[5] Gardner, Levy, 1955, The product and the brand, in Journal of Historical Research in Marketing 4(3):347-368

[6] Martineau, 1958,The personality of the retail store, in Harvard Business Review 36

[7] Levy, 1964, Marketing and aesthetics, Brands, Consumers, Symbols, and Research,American Marketing Association Summer Educators Conference Talk, Sage Publishing

[8] Plummer, 1985, How personalities makes a difference, in Journal of Advertising Research, Volume 40, Issue 6