Nel 1966 Gérard Genette, critico letterario e saggista francese, esponente di spicco dello strutturalismo e della narratologia, fa una distinzione tra racconto, storia e narrazione.
Parlando di racconto egli intende l’enunciato narrativo puro, il solo aspetto di superficie o significante, il singolo e concreto prodotto di un atto di enunciazione.
La parola storia invece indicherebbe il significato, o il contenuto narrativo, l’oggetto del racconto costituito dalla successione degli avvenimenti riportati.
Il termine narrazione, infine, indicherebbe l’atto narrativo che produce il racconto e, per estensione, la cornice reale o fittizia nella quale questi ha luogo.
nei precedenti articoli ho sempre fatto riferimento, parlando di racconto, sia al contenuto narrativo che a tutto quel mondo di significati profondi che il racconto Genettiano si porta dietro.
Fontana approfondisce, a tal proposito, gli studi sulla definizione di storytelling ed espande le scelte lessicali di Genette, precisando come fare storytelling non sia raccontare storie ma comunicare piuttosto “stories”: racconti[1]
Quale sarebbe, in quest’ultima ottica, la differenza tra storia e racconto?
La tabella, puramente esemplificativa può aiutare a comprendere le distanza concettuale tra i due termini e delinea più chiaramente il campo di analisi, quello della story, nel quale la disciplina storytelling debba concentrarsi.
Sarà così che chi si occupa di storia intesa come history avrà più attenzione a fatti, dati, date e descrizioni logiche e quantitative, mentre chi si occupa di racconti, story, porrà il proprio focus su percezioni, scene, trame, rimandi psicosociali ed emozionali.
“Agli storyteller piace l’introspezione e l’enigma, il fatto e il dato sono scontati e i narratori li lasciano agli storiografi.” [2]